mercoledì 20 giugno 2012

Un ventiseienne nel Cda Rai

Oggi, gran bel risveglio. Accendo il pc, mi connetto a facebook e vedo che un ex studente e laureato in Media e Giornalismo come me, ha avuto il coraggio e ha trovato il modo di fare un gran bel passo.
Ecco la lettera...


UN VENTISEIENNE NEL CDA RAI
Mi chiamo Paolo Gioia, ho ventisei anni e una laurea in “Media e Giornalismo” conseguita
alla “Cesare Alfieri” di Firenze. Da quattro anni sono uno dei volti più o meno noti di una
televisione di Mantova e, nei giorni scorsi, ho deciso di inviare il mio curriculum per candidarmi al
consiglio di amministrazione RAI. Una scelta esagerata? Forse. Ma prima di tutto una scelta dal
forte valore simbolico.
Ormai è quasi retorico dire che “noi giovani siamo sempre meno protagonisti della vita pubblica”
eppure questo rimane un drammatico dato di fatto. Molti di noi, con addosso la sensazione - in
alcuni casi addirittura la certezza - di essere esclusi e estraniati da buona parte della vita
democratica del Paese, hanno preferito ammutolire di fronte a politiche che non li considerano
come soggetti portatori d’interessi, piuttosto che alimentare la frustrazione propria di una
generazione di inascoltati. Il più delle volte, la non partecipazione dei giovani era giustificata dallo
scoraggiamento del “tanto poi non cambia nulla”.
Come ragazzini di fronte ai genitori che litigano, abbiamo assistito: alle dispute fra destra e
sinistra, fra governo e sindacati, fra potere esecutivo e magistratura, fra il mondo della politica e
quello della società reale. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a scontri, ideologici o d’interessi,
che hanno lacerato e reso l’Italia tristemente scissa tra la realtà della politica e delle istituzioni e
quella dei cittadini. Fino ad oggi siamo stati spettatori “senza telecomando”, testimoni muti di
tutto quel che accadeva, impossibilitati a poter prendere parte attiva nel discorso pubblico perché:
“siete troppo giovani / mancate di esperienza / voi giovani di oggi non vi interessate a nulla”, ovviamente
nell’attesa di diventare troppo vecchi o, per dirlo in politichese,“bamboccioni”. Io, come molti altri
che mi supportano in questa mia presa di posizione, ho sempre voluto fare qualcosa per cambiare le
cose. È così che, oggi, 18 giugno 2012, mi piace partire da qui, da un mondo che sento mio. E con
la trasparenza di un gesto semplice e democratico tento di riafferrare quel simbolico telecomando e
scelgo di voler ricominciare a vedere uno spettacolo fatto di etica, professionalità e qualità per la
mia e la nostra Italia. Giovane e inesperto del ruolo è vero, forse un po’ spaventato, ma
decisamente determinato e con le idee chiare. Idee chiare anche nel guardare alla RAI che vorrei.
Mi piacerebbe che, essendo la RAI patrimonio di tutti, la procedura di scelta del Consiglio
di Amministrazione sfruttasse al massimo quelle pratiche online che possono garantire scelte più
trasparenti e livelli di responsiveness più alta rispetto alle richieste, ai bisogni e alle aspettative dei
pubblici. Credo infatti che sia proprio tramite tali politiche di trasparenza che si possa rendere la
Rai effettivamente rappresentativa, moderna e competitiva perché dotata di quelle maggiori risorse
che il cittadino garantisce con il suo contributo. Parlare di una Rai di questo tipo vuol dire parlare
di una Rai “laica”, aperta al dialogo, lontana da faziosità politiche fini a se stesse. Attenta a
descrivere e raccontare un paese nella sua totalità e nelle sue parti, non a far passare una parte per
la totalità del paese. Proprio per questo credo che, in un momento in cui la crisi economica rende
lo scontro generazionale estremamente acuto, sia giunto il momento per l’Italia di rileggere il
principio di pluralismo - che la RAI da sempre si impegna a garantire, - anche in una chiave
generazionale. In modo da inglobare nel dibattito a chi finora è rimasto inascoltato e escluso dalle
dinamiche di gestione dei beni e delle risorse pubbliche.
Giorgio Merlo, vicepresidente della Commissione parlamentare di vigilanza Rai, nei giorni
scorsi ha chiesto agli aspiranti consiglieri di pronunciarsi su pluralismo e contratti milionari.
Accolgo l'invito. Credo che sia assurdo e demagogico pretendere un tetto massimo nei contratti
Rai di artisti e conduttori perché, piaccia o non piaccia, ad oggi, la Rai è e deve essere sul mercato e
questo vuol dire essere competitivi.
Il pluralismo, finora, per i politici si è tradotto in lottizzazione. Realizzare un pluralismo
che, come accennato prima, sia anche garante di un riequilibrio e di una proporzionalità
generazionale richiede una rinuncia da parte dei partiti a mettere le mani sulla televisione
pubblica. Se al posto delle esigenze di “presenzialismo” politico, si mettessero al centro, da una
parte, le reali esigenze dell’audience democratica e, dall’altra, il merito e la professionalità di coloro
che lavorano per fare “la televisione”, la RAI sarebbe finalmente in grado di garantire quella
libertà e quella corretta informazione che è punto fondamentale del codice etico di cui si è dotata.
Dirigenti competenti nominano direttori equilibrati che assumono giornalisti meritevoli. E
un giornalista che sia tale, comunque la pensi, non può non amare il valore della libertà.
Pluralismo - concetto banale a dirsi, ma a quanto insegna la prassi non così scontato - non è
cancellare o mutilare programmi scomodi, ma è ampliarne l'offerta. È necessario che la RAI riesca
a garantire un dialogo capace di arricchirsi con la varietà dei punti di vista. Comodi o scomodi che
siano, ma necessariamente sfaccettati e capaci di dare un quadro veritiero del reale. Non bisogna
togliere voci, ma aggiungerle. Ogni voce in una RAI che è patrimonio di tutti, deve trovare spazio.
La logica del contraddittorio che spesso regola le nostre trasmissioni è una rigidità che rischia, in
alcuni casi, di limitare la stessa libertà di espressione che si promuove di difendere. Questo, ancor
di più quando la scelta di professionisti competenti e deontologicamente rispettosi dei principi
propri della democrazia rende superflua la necessità di una regola del genere. Per spiegare la
questione mi permetto un piccolo paradosso: avete mai sentito l’esigenza di vedere, ogni domenica
durante l'Angelus, Margherita Hack affacciata alla finestra accanto a quella del papa pronta a
parlare di ateismo e a rimbeccare Benedetto XVI? La strada è quella di programmi di qualità
fortemente caratterizzati. Programmi che permettano al telespettatore di scegliere, ragionare,
confrontare e scegliere di nuovo. In un circolo virtuoso non in un caos di voci che si rincorrono.
In un quadro generale in cui le audiences si sfaldano, gli ascolti si parcellizzano e, talvolta si
disperdono, a vincere sono quelle realtà che richiamano un pubblico specifico. La tv generalista,
come è stata intesa fino ad oggi arranca. Per questo la sfida della RAI oggi è ancora più intensa,
appassionante ed estremamente complessa. La RAI è chiamata a dover riscrivere il significato di
generalista e con esso il senso di un paese che, pur scisso da mille diversità e difficoltà, ha voglia di
restare unito. Oggi, infatti, più che mai, in questi mesi di trasformazione profonda e di crisi sociale,
economica e politica la RAI può e deve essere, ancora una volta, come in passato, attore di un
cambiamento, un esempio per la società nella sua interezza. La Rai è narrazione, è racconto, è
cultura. In quanto tale, rappresenta una risorsa identitaria forte per costruire il futuro di un paese
confuso dalla crisi economica e politica che stiamo attraversando. Una risorsa che non possiamo
assolutamente permettere sia, proprio ora, ostaggio delle parti a discapito dell’interesse del tutto.
La RAI vive da troppo nell'ambiguità di ibrido tra servizio pubblico e tv commerciale e
probabilmente questa è una strada ancora percorribile, ma ciò che è certo è che un segnale è
necessario. Dovrebbe essere chiaro a tutti quando un programma, una trasmissione, uno speciale,
una fiction è servizio pubblico. Come uno specifico progetto viene finanziato: se tramite canone o
tramite introiti pubblicitari. Sogno una RAI libera, moderna, giovane, laica e trasparente che
ricalchi quel vecchio slogan che racchiudeva una delle mission del Servizio Pubblico: “di tutto di
più”. O, forse, ancora meglio, sogno una Rai che sia “di tutti un po’ di più”. Questa è la RAI che
vorrei costruire. Questo è uno dei mattoni che vorrei porre per quell’Italia di domani che, già da
oggi, bisogna iniziare a costruire.
Paolo Gioia




Intervista a Paolo Gioia.

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