lunedì 8 ottobre 2012

Io decido di restare


Ho deciso di non andare e di restare perchè dei colori di questi paesaggi voglio godere.
Ho deciso di restare e di non andare perchè per queste strade voglio passeggiare.
Ho deciso di non andare e di restare perchè tanti di questi volti voglio vedere.
Ho deciso di restare e di non andare perché questi piatti voglio mangiare.
Ho deciso di non andare e di restare perchè è un'aria sana quella che voglio respirare.
Ho deciso di restare e di non andare perchè quando quell'aria comincia a farsi viziata sento il bisogno di farla cambiare.
Ho deciso di non andare e di restare perchè è qui che voglio lavorare.
Ho deciso di restare e di non andare perchè è qui che voglio costruire.
Ho deciso di non andare e di restare perchè è qui che devo lottare.
Ho deciso di restare e di non andare perchè è questo posto che voglio veder rinascere.
Ho deciso di non andare e di restare perchè è l'inciviltà che voglio combattere.
Ho deciso di restare e di non andare perchè è qui che voglio amare.
Decido di non andare e di restare perché le cose che cerco me le voglio “sudare”.
Decido di restare e di non andare perché credo che tutto questo ancora si possa realizzare.
Decido di non andare e di restare perché le “armi” non voglio abbandonare.

venerdì 22 giugno 2012

Venosa non è un paese solo di vecchi


Lunedì 18 giugno, dopo la vittoria dell' Italia sull' Irlanda, tutto il paese si è ritrovato a festeggiare. Quando parlo di paese mi riferisco a Venosa.
Quelli che ho avuto modo di osservare sono stati festeggiamenti che ci stanno tutti, vuoi per i veri tifosi e per i veri intenditori di calcio, vuoi per chi, come me, non ne capisce nulla ma comunque, almeno le partite dell'Italia agli europei o ai mondiali, le segue.
Ma non è questo il punto. La cosa che mi ha fatto riflettere non è il motivo dell'euforia scatenatasi per strada, anche se a riguardo ne avrei di cose da dire sui modi egocentrici di partecipazione ai festeggiamenti.
Ma tralascio questi aspetti. La mia riflessione è stata l'osservare come i giovani ci siano eccome a Venosa e come sono in grado di creare un certo movimento. Allora mi dico, possibile che lo sappiamo fare solo per queste cose? Solo per festeggiare? Perchè non siamo in grado di metterci in moto anche per denunciare situazioni scomode? Per quale motivo siamo bravi a fare cori e a sventolare bandiere per una partita di calcio? Riusciamo ad essere  altrettanto carichi per scuotere questa città che sembra essersi assopita non per il caldo della bella stagione, ma per una dilaniante indifferenza e un totale disinteresse generale? Cosa ci spaventa? Il metterci in discussione? Il dover investire la propria persona e personalità in qualcosa di più impegnativo? Eppure, credo che i giovani come me che hanno deciso di tornare e quelli che invece hanno deciso di non andare e di rimanere sin dal primo momento, non siano contenti di vivere in un posto così. Un paese in cui nulla accade. Un posto dove non si trova il modo di cambiare le cose e non tanto per la voglia di cambiare il mondo e di rendersi paladini di chissà quale ideologia, quanto per una qualità di vita migliore, per creare possibilità di crescita per noi stessi, per dare vita a stimoli positivi per le nostre generazioni. Dico se abbiamo deciso di vivere qui possibile che ci vada bene il disinteresse? E' possibile che sappiamo solo essere spettatori di uno spettacolo che il più delle volte non ha nulla da offrire? Sappiamo prendere in mano il telecomando e cambiare canale?!

mercoledì 20 giugno 2012

Un ventiseienne nel Cda Rai

Oggi, gran bel risveglio. Accendo il pc, mi connetto a facebook e vedo che un ex studente e laureato in Media e Giornalismo come me, ha avuto il coraggio e ha trovato il modo di fare un gran bel passo.
Ecco la lettera...


UN VENTISEIENNE NEL CDA RAI
Mi chiamo Paolo Gioia, ho ventisei anni e una laurea in “Media e Giornalismo” conseguita
alla “Cesare Alfieri” di Firenze. Da quattro anni sono uno dei volti più o meno noti di una
televisione di Mantova e, nei giorni scorsi, ho deciso di inviare il mio curriculum per candidarmi al
consiglio di amministrazione RAI. Una scelta esagerata? Forse. Ma prima di tutto una scelta dal
forte valore simbolico.
Ormai è quasi retorico dire che “noi giovani siamo sempre meno protagonisti della vita pubblica”
eppure questo rimane un drammatico dato di fatto. Molti di noi, con addosso la sensazione - in
alcuni casi addirittura la certezza - di essere esclusi e estraniati da buona parte della vita
democratica del Paese, hanno preferito ammutolire di fronte a politiche che non li considerano
come soggetti portatori d’interessi, piuttosto che alimentare la frustrazione propria di una
generazione di inascoltati. Il più delle volte, la non partecipazione dei giovani era giustificata dallo
scoraggiamento del “tanto poi non cambia nulla”.
Come ragazzini di fronte ai genitori che litigano, abbiamo assistito: alle dispute fra destra e
sinistra, fra governo e sindacati, fra potere esecutivo e magistratura, fra il mondo della politica e
quello della società reale. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a scontri, ideologici o d’interessi,
che hanno lacerato e reso l’Italia tristemente scissa tra la realtà della politica e delle istituzioni e
quella dei cittadini. Fino ad oggi siamo stati spettatori “senza telecomando”, testimoni muti di
tutto quel che accadeva, impossibilitati a poter prendere parte attiva nel discorso pubblico perché:
“siete troppo giovani / mancate di esperienza / voi giovani di oggi non vi interessate a nulla”, ovviamente
nell’attesa di diventare troppo vecchi o, per dirlo in politichese,“bamboccioni”. Io, come molti altri
che mi supportano in questa mia presa di posizione, ho sempre voluto fare qualcosa per cambiare le
cose. È così che, oggi, 18 giugno 2012, mi piace partire da qui, da un mondo che sento mio. E con
la trasparenza di un gesto semplice e democratico tento di riafferrare quel simbolico telecomando e
scelgo di voler ricominciare a vedere uno spettacolo fatto di etica, professionalità e qualità per la
mia e la nostra Italia. Giovane e inesperto del ruolo è vero, forse un po’ spaventato, ma
decisamente determinato e con le idee chiare. Idee chiare anche nel guardare alla RAI che vorrei.
Mi piacerebbe che, essendo la RAI patrimonio di tutti, la procedura di scelta del Consiglio
di Amministrazione sfruttasse al massimo quelle pratiche online che possono garantire scelte più
trasparenti e livelli di responsiveness più alta rispetto alle richieste, ai bisogni e alle aspettative dei
pubblici. Credo infatti che sia proprio tramite tali politiche di trasparenza che si possa rendere la
Rai effettivamente rappresentativa, moderna e competitiva perché dotata di quelle maggiori risorse
che il cittadino garantisce con il suo contributo. Parlare di una Rai di questo tipo vuol dire parlare
di una Rai “laica”, aperta al dialogo, lontana da faziosità politiche fini a se stesse. Attenta a
descrivere e raccontare un paese nella sua totalità e nelle sue parti, non a far passare una parte per
la totalità del paese. Proprio per questo credo che, in un momento in cui la crisi economica rende
lo scontro generazionale estremamente acuto, sia giunto il momento per l’Italia di rileggere il
principio di pluralismo - che la RAI da sempre si impegna a garantire, - anche in una chiave
generazionale. In modo da inglobare nel dibattito a chi finora è rimasto inascoltato e escluso dalle
dinamiche di gestione dei beni e delle risorse pubbliche.
Giorgio Merlo, vicepresidente della Commissione parlamentare di vigilanza Rai, nei giorni
scorsi ha chiesto agli aspiranti consiglieri di pronunciarsi su pluralismo e contratti milionari.
Accolgo l'invito. Credo che sia assurdo e demagogico pretendere un tetto massimo nei contratti
Rai di artisti e conduttori perché, piaccia o non piaccia, ad oggi, la Rai è e deve essere sul mercato e
questo vuol dire essere competitivi.
Il pluralismo, finora, per i politici si è tradotto in lottizzazione. Realizzare un pluralismo
che, come accennato prima, sia anche garante di un riequilibrio e di una proporzionalità
generazionale richiede una rinuncia da parte dei partiti a mettere le mani sulla televisione
pubblica. Se al posto delle esigenze di “presenzialismo” politico, si mettessero al centro, da una
parte, le reali esigenze dell’audience democratica e, dall’altra, il merito e la professionalità di coloro
che lavorano per fare “la televisione”, la RAI sarebbe finalmente in grado di garantire quella
libertà e quella corretta informazione che è punto fondamentale del codice etico di cui si è dotata.
Dirigenti competenti nominano direttori equilibrati che assumono giornalisti meritevoli. E
un giornalista che sia tale, comunque la pensi, non può non amare il valore della libertà.
Pluralismo - concetto banale a dirsi, ma a quanto insegna la prassi non così scontato - non è
cancellare o mutilare programmi scomodi, ma è ampliarne l'offerta. È necessario che la RAI riesca
a garantire un dialogo capace di arricchirsi con la varietà dei punti di vista. Comodi o scomodi che
siano, ma necessariamente sfaccettati e capaci di dare un quadro veritiero del reale. Non bisogna
togliere voci, ma aggiungerle. Ogni voce in una RAI che è patrimonio di tutti, deve trovare spazio.
La logica del contraddittorio che spesso regola le nostre trasmissioni è una rigidità che rischia, in
alcuni casi, di limitare la stessa libertà di espressione che si promuove di difendere. Questo, ancor
di più quando la scelta di professionisti competenti e deontologicamente rispettosi dei principi
propri della democrazia rende superflua la necessità di una regola del genere. Per spiegare la
questione mi permetto un piccolo paradosso: avete mai sentito l’esigenza di vedere, ogni domenica
durante l'Angelus, Margherita Hack affacciata alla finestra accanto a quella del papa pronta a
parlare di ateismo e a rimbeccare Benedetto XVI? La strada è quella di programmi di qualità
fortemente caratterizzati. Programmi che permettano al telespettatore di scegliere, ragionare,
confrontare e scegliere di nuovo. In un circolo virtuoso non in un caos di voci che si rincorrono.
In un quadro generale in cui le audiences si sfaldano, gli ascolti si parcellizzano e, talvolta si
disperdono, a vincere sono quelle realtà che richiamano un pubblico specifico. La tv generalista,
come è stata intesa fino ad oggi arranca. Per questo la sfida della RAI oggi è ancora più intensa,
appassionante ed estremamente complessa. La RAI è chiamata a dover riscrivere il significato di
generalista e con esso il senso di un paese che, pur scisso da mille diversità e difficoltà, ha voglia di
restare unito. Oggi, infatti, più che mai, in questi mesi di trasformazione profonda e di crisi sociale,
economica e politica la RAI può e deve essere, ancora una volta, come in passato, attore di un
cambiamento, un esempio per la società nella sua interezza. La Rai è narrazione, è racconto, è
cultura. In quanto tale, rappresenta una risorsa identitaria forte per costruire il futuro di un paese
confuso dalla crisi economica e politica che stiamo attraversando. Una risorsa che non possiamo
assolutamente permettere sia, proprio ora, ostaggio delle parti a discapito dell’interesse del tutto.
La RAI vive da troppo nell'ambiguità di ibrido tra servizio pubblico e tv commerciale e
probabilmente questa è una strada ancora percorribile, ma ciò che è certo è che un segnale è
necessario. Dovrebbe essere chiaro a tutti quando un programma, una trasmissione, uno speciale,
una fiction è servizio pubblico. Come uno specifico progetto viene finanziato: se tramite canone o
tramite introiti pubblicitari. Sogno una RAI libera, moderna, giovane, laica e trasparente che
ricalchi quel vecchio slogan che racchiudeva una delle mission del Servizio Pubblico: “di tutto di
più”. O, forse, ancora meglio, sogno una Rai che sia “di tutti un po’ di più”. Questa è la RAI che
vorrei costruire. Questo è uno dei mattoni che vorrei porre per quell’Italia di domani che, già da
oggi, bisogna iniziare a costruire.
Paolo Gioia




Intervista a Paolo Gioia.

mercoledì 23 maggio 2012

Il nostro mondo liquido

Propongo un esempio di lettura intelligente della contemporaneità che, a mio avviso, è anche spunto di riflessione sulla realtà: il pensiero di Zygmunt Bauman.
Non  aggiungo altro ai video. Voglio essere un qualsiasi lettore di questo blog.
Oggi non scrivo. Rifletto.




lunedì 14 maggio 2012

Bosnia duemilasei

Sono diversi gli episodi e le circostanze che porto con me, per tanti motivi. Ciascuno ha dato un colore, un tono al mio vissuto. Forse un giorno avrò voglia di tediarvi  raccontandovi delle esperienze che hanno avuto un colore grigio e che poi, col passare del tempo, hanno trovato delle sfumature più dolci trasformandosi in un colore dai toni più chiari.
In questo momento invece sento il bisogno di rendervi partecipi di una delle cose che  ha colorato la mia vita di colori caldi e solari.
Era l'estate del duemilasei quando, appena ventenne, decisi di iscrivermi ad un progetto di un' Ong che organizzava campi scuola in Bosnia. Partii, con la mia amica Marialaura, alla volta della Bosnia, lasciando i miei genitori preoccupati, ma anche fiduciosi e entusiasti dell'esperienza che mi accingevo a fare.
Durante il viaggio in treno, appena entrati in territorio bosniaco, provai le prime sensazioni a contatto con un paesaggio dai tratti semplici, che per molti versi somiglia a quello nostro, vuoi per i colori, vuoi per le sue linee.
Trascorsi la prima settimana a Otoka Bosanska, una piccola città della Bosnia settentrionale. Il gruppo di cui facevo parte, I Vagabondi di Pace, aveva l'obiettivo di creare, all'interno delle scuole dei paesi dove facevamo il campo, delle attività con i bambini e i ragazzini bosniaci. Il primo giorno, superati lo spaesamento e l'inibizione dell'inizio, rimasi stupita da come i bambini aspettavano l'apertura della giornata al campo scuola. Man mano che i giorni passavano, mi sentivo sempre più in un habitat familiare. Devo ammettere di aver risvegliato il lato ludico che si era quasi assopito in me. 
Nei giorni successivi il rapporto divenne sempre più di contatto fisico con alcuni bambini, perchè ti saltavano addosso dalla gioia di vederti, ti abbracciavano, ti baciavano. Le ragazzine più grandi si divertivano a farmi la treccia o la coda ai capelli. A fine giornata era bello percorrere la strada verso casa con loro che ti stringevano la mano, che ti racconglievano un fiore o un frutto e te lo offrivano. A proposito ricordo bene la volta in cui un ragazzino si arrampicò su un albero per prendere una mela. Messi i piedi a terra, mi donò la mela che aveva un grosso verme all'interno. All' inizio la guardai con un certo disgusto, ma non potevo non mangiarla, non sarebbe stato cortese nei confronti del bambino, allora detti un morso alla parte in cui la mela era ancora sana.
La sera quando tornavo a casa, - sì a casa, perchè noi volontari eravamo ospiti di un gentilissimo uomo bosniaco, Izet, che metteva a disposizione la sua abitazione per i ragazzi del collettivo -,sentivo forte la stanchezza di una giornata trascorsa con più di trenta bambini. Era una stanchezza che dava le sue soddisfazioni e che veniva allegerita dalle cene a base di burek e kifla.
La prima settimana ad Otoka trascorse in fretta e ricca di emozioni.
Per il campo scuola della seconda settimana, ci trasferimmo a Krupa Bosanka. Anche lì, così come era accaduto nella settimana precedente, i giorni furono pieni e zeppi di gesti di affetto. Per me era diventato ormai naturale il rapporto con i ragazzi. Non avevo nessuna remora a mostrarmi, nonostante l'unico modo che avessi per comunicare fosse il linguaggio del corpo e degli occhi, dato che solo i più grandi tra loro capivano qualche parola di inglese.
Una delle sensazioni che non posso dimenticare è quella che sentivo ogni giorno quando, a fine attività, i bambini se ne tornavano a casa ed io ero lì a guardarli fino a che non vedevo le loro sagome sparire all'orizzonte. Era come se non volessi perdermi nulla di loro, era come se non mi sentissi mai sazia.
Si concluse anche la seconda settimana e arrivò il momento di salutare la Bosnia e quello che essa mi aveva regalato in quei quindici giorni. Non fu facile partire, mi sentivo come strappata ad un posto che mi aveva dato la possibilità di sentirmi me stessa, vivendo emozioni che ancora oggi è arduo descrivere.
Conservo le tante lettere di arrivederci e i regali che ciascun bambino ha voluto che portassi con me.
La Bosnia questo è stato per me: un insieme di emozioni che mi si sono cucite addosso, come un vestito che non potrei mai smettere di indossare.






venerdì 11 maggio 2012

Non sono obiettivo

Quando scelsi di acquistare i libri di Oliviero Toscani ero consapevole che mi sarei approcciata ad una lettura insolita e imprevedibile. Conoscendo un pò il personaggio Toscani, potevo immaginare che le sue non sarebbero state parole   scontate, soprattutto non mezzi termini. Questo mi affascinava e mi affascina.
Nel suo libro " Non sono obiettivo ", Oliviero è diretto, così come lo è con le sue fotografie e con i messaggi delle sue campagne pubblicitarie. Di sicuro è un personaggio che non conosce il perbenismo. E' una sorta di esagerazione attraverso cui esprime il suo modo di vedere il mondo.
Egli stesso scrive " io non sono obiettivo, però vedo, e molto spesso quel che vedo non mi piace. Allora mi prendo la libertà di dirlo ".
Trovo che in punto preciso del libro si possa trovare il Toscani puro, genuino e, forse per alcuni, anche un pò irriverente. Non posso non condividere con voi questo passo.



" In uno scompartimento, in treno:
<< Scusi, le dà fastidio se fumo?
E a lei dà fastidio se scoreggio?>>
Chissà perchè l'odore di un peto innocente è moralmente condannabile più del puzzo di una boccata di fumo, che ha stagnato nei polmoni marci di un fumatore. Sfido chiunque a dimostrare, tra i due odori, che quello del fumo è più ecologico. L'odore di un  peto dura, in media, dai dieci ai quindici secondi. Poi si disperde naturalmente nell'aria. Una sigaretta, aspirata con calma e non con la nevrosi che spinge chi fuma a spegnerne una e accenderne un'altra, dura dai due ai tre minuti. Il fumo ristagna per ore negli ambienti, impregna abiti e capelli dei malaugurati che vi si trovano. Le cicche sporcano i pavimenti e riempiono i portacenere.
Una scoreggia provoca, tutt'al più, un risolino e una fuga temporanea. Bisognerebbe rivedere le regole del galateo per togliere dal peto quell'imbarazzo del "si fa ma non si dice" che provoca vergogna e trasferire tutto sul fumo, un'attività che dovrebbe essere relegata alla clandestinità e, qualora fosse compiuta in pubblico, condannata dalla riprovazione e dal biasimo. Chiedere ad alta voce in un salotto: "Disturbo se scoreggio?" servirebbe a rendere evidente la violenza di chi, chiedendo educatamente se può fumare, pretende in realtà di concedersi tre minuti in cui può fare i suoi porci comodi, che è, da sempre, il massimo della maleducazione.
E che dire della legge che impone al datore di lavoro di adeguare gli impianti di depurazione per permettere agli impiegati di fumare in ufficio? Significa che, in presenza di un ventilatore, sarà permesso anche scoreggiare?
Respirare il fumo di una sigaretta, infine, fa venire il cancro. Respirare l'odore di un peto fa venire, al massimo, il dubbio su chi lo ha sganciato."




Le immagini sono due lavori di Oliviero Toscani.

giovedì 10 maggio 2012

Inciviltà, la nonchalance di un gesto

So che molti hanno già letto questo mio pezzo, ma mi sembra sempre attuale. Lo ripropongo.


 Il fazzoletto, il chewingum, la cicca di sigaretta, l’involucro di un pacchetto di caramelle ( potremmo sfiziarci a più non posso con la lista) buttati dal finestrino di una macchina in transito. Magari ironia della sorte, trasportati dal vento, finiscono in un contenitore chiamato cestino.
La bottiglia di una birra, il bicchiere di un cocktail, il piattino di una crepes con annessi forchetta, coltello e tovagliolo (vuoi che chi la mangia non si debba pulire per benino i baffi di nutella?!),abbandonati in un vicolo, come se lasciarli lì volesse quasi dire “il netturbino cosa esiste a fare?!”.
Elettrodomestici di vario genere adagiati ai cassonetti dell’immondizia perché non c’è più spazio per loro e chi non deve farne più uso non ha più tempo e voglia di tornare a buttarli il giorno dopo, quando la ditta addetta alla nettezza urbana ha svuotato i cassonetti. Perché tenerli ancora a casa o in garage se invece possono giacere  indisturbati a fianco dei bidoni della spazzatura, che male fanno?mica sporcano?
Il preservativo, la salvietta intima, perché non gettarli proprio lì? Perché non poter fare fin in fondo tutto selvaggiamente così come l’atto che si è appena consumato?
Il piscio, la cacca (di animale e umana) davanti al portone  di casa tua. Ma sì, in fondo capisco bene: è così scocciante dover fare la fila per andare nel bagno del bar che è molto meglio farla en plen air, dà più soddisfazione.
L’ombrello che, data la forte folata di vento, si è rotto e ha perso la sua funzionalità, perché aspettare di trovare un cassonetto per buttarlo, se posso lasciarlo tranquillamente sul marciapiede? Tanto non mi serve più ormai.
L’elenco di comportamenti di questo genere potrebbe continuare senza mai trovare fine.
Mi capita spesso di osservare gesti che, definire incivili, significherebbe fare un complimento a chi li compie.
Altrettanto di frequente succede che mi ritrovi ad evidenziare la gravità del gesto, biasimando chi lo ha compiuto, ma la stragrande maggior parte delle volte le mie parole non vengono recepite come rimprovero e così scatta il sorriso di colui che viene rimproverato, quasi a voler dire “su, dài, vorrai mica adirarti sul serio per una mezza carta buttata a terra?! Vorrai mica dire che proprio quel fazzoletto sarà la causa dell’inquinamento mondiale?!”
E così, anche se sotto mio suggerimento, raccoglie il fazzoletto appena gettato, la volta dopo mi ritrovo a fargli notare di essere nuovamente l’esecutore dello stesso identico e ingiusto comportamento della volta precedente.
Allora, se non si capisce l’importanza e l’aspetto grave di tali gesti, pongo la questione su un altro piano, quello estetico.
Anche solo per un senso di decoro e ordine dell’ambiente, non sarebbe meglio utilizzare gli appositi cassonetti o cestini? Che questi esistano avrà un senso?

Parlo il dialetto e non me ne vergogno

Sono una di quelli che di solito e più che volentieri parla il dialetto. Vuoi perchè mi piace, vuoi perchè lo si parla a casa, vuoi perchè con mia nonna non potrei più di due minuti parlare in italiano. Ma non mi faccio mancare la frase in dialetto anche al bar con gli amici.
Il dialetto tante volte viene in mio soccorso. E sì, perchè ci sono situazioni, sensazioni e momenti che non potrebbero essere detti se non attraverso il dialetto, senza troppi giri di parole. Basta il suono di un "efes" per esprimere un sentimento di meraviglia.
Spesso però, c'è chi  vede come una scurrilità parlare il dialetto. Spesso c'è chi si sente quasi imbarazzato dalla presenza di chi lo parla, come se quella stessa lingua appartenesse solo a chi la pratica, senza sapere che è lui che compie un errore. L'errore di non parlare il dialetto e di non portare avanti  la tradizione che quell'idioma possiede. Se guardiamo all'etimologia della parola idioma (dal latino idioma , "peculiarità" ) non possiamo non apprendere che il dialetto è espressione propria di una lingua, è ciò che la caratterizza, che la rende peculiare. E non parlare quella lingua significherebbe spezzare la catena, vorrebbe dire troncare la sua storia.
Ricordo con affetto un'esperienza fatta con alcuni compagni delle scuole medie: un'esibizione col gruppo folk della scuola. Ci esibimmo con canti in dialetto venosino e trovammo una platea contenta di averci ascoltato. A fine spettacolo il presentatore fece una sua riflessione sull'importanza di tramandare la lingua dialettale, invitando     
i più adulti a non ammonire i più giovani che parlavano il dialetto.
Non permettiamo che si vada cancellando ciò che ci caratterizza. Stamattina, mi sono imbattuta in un articolo su Repubblica.it che denuncia la quasi scomparsa di alcune lingue. Vi lascio alla lettura del pezzo.
http://www.repubblica.it/scienze/2012/05/09/news/lingue_in_via_d_estinzione_solo_internet_pu_salvarle-34473862/?ref=HREC2-16

mercoledì 9 maggio 2012

Si aprono le danze

Il mio primo post. In realtà non è esclusivamente mio, perchè l'idea del blog è nata insieme con alcune persone che mi hanno suggerito di creare un mio spazio, uno spazio dove poter scrivere cosa, quando e come voglio. Sì, uno spazio libero che possa essere  luogo per le mie riflessioni e punto di incontro per chi avrà curiosità di leggermi.
Non so ancora bene di cosa tratterò. Al momento non riesco a creare delle sezioni di argomenti, posso solo assicurare che scriverò ogni qualvolta sentirò l'esigenza di raccontare fatti attraverso l'esperienza che farò di essi e di raccontare me stessa senza presunzione, ma con la sola consapevolezza che le mie riflessioni possano essere motivo di condivisione o disaprovvazione, confronto e discussione. Apriamo insieme le danze e incrociamo le dita.